La spasmodica attesa dei milioni di appassionati di racconti videoludici di cappa e spada è giunta finalmente al termine. Dopo tre, lunghi anni passati ad assorbire come spugne tutte le immagini ed i trailer offertici da BioWare, è arrivato il momento di indossare la nostra cotta di maglia preferita, di affilare la nostra ascia bipenne intrisa del sangue incantato di un Ogre di foresta e di incamminarci verso le lande del Ferelden per raggiungere Dragon Age: Origins.
Sulla bravura dei ragazzi BioWare nel realizzare giochi di ruolo di stampo occidentale non si discute: titoli come Mass Effect, KOTOR, Jade Empire, Neverwinter Nights, Baldur’s Gate e tutti i loro seguiti, infatti, non possono che essere considerati come capolavori assoluti nel loro genere, nonchè veri e propri metri di paragone con cui confrontarsi e da cui trarre perennemente ispirazione.
Passata sotto l’ala protettrice di Electronic Arts, la casa di sviluppo canadese è perciò pronta a mostrarci il primo frutto di questa importantissima unione, ossia quel tanto atteso Dragon Age: Origins che, dalla culla fino alla piena maturazione su PC, PlayStation 3 e Xbox 360, non ha fatto altro che ascoltare storie fantastiche di bardi, di nobili eroi senza regno e di imperi nanici caduti in disgrazia. Quale accoglienza dovremmo perciò riservare a questa reinterpretazione next-gen dell’universo di gioco di Baldur’s Gate?
Per scoprirlo, non vi resta altro da fare che seguirci attraverso questa recensione.
AL CUOR DI DRAGO NON SI COMANDA
Bastano pochissime ore di gioco per capire quanto sia spaventosamente alto il livello qualitativo della trama narrata in Dragon Age: Origins. Traendo ispirazione dall’opera letteraria Cronache del Ghiaccio e del Fuoco di George R.R. Martin, la nuova creatura di Muzyka e compagni catapulta letteralmente il videogiocatore in un universo fantasy credibile e, soprattutto, tremendamente attraente.
Come ogni buon GDR che si rispetti, Dragon Age ci permette di ricreare da zero il nostro eroe partendo da una serie di fattori che, pur non essendo infiniti come in titoli simili (Oblivion docet), hanno un “peso specifico” altissimo in relazione alla storia che ci verrà proposta da quel momento in poi: intraprendere una campagna in singolo con un elfo arciere offre un’esperienza diametralmente opposta rispetto a quella ottenibile, ad esempio, con un guerriero umano o anche solo con un’elfo del sesso opposto.
In un mondo sconvolto ciclicamente dall’invasione (l’Orda) di creature soprannaturali corrotte dal male (la Prole Oscura), ogni razza, gilda e casta trova nell’isolamento e nell’autarchia le vie più sicure per la sopravvivenza: proprio per questo, ogni scelta che decidiamo di far compiere al nostro eroe virtuale determinerà la sua sorte e quella delle persone che ha vicino, ripercuotendosi direttamente sulla narrazione principale.
Nonostante il Ferelden abbia davvero pochi punti di contatto con la nostra “amata” Terra, in entrambe le dimensioni regna supremo il Libero Arbitrio. Se nella vita reale decidiamo di lanciare un sasso in uno stagno, ne incresperemo la superficie con onde concentriche: allo stesso modo, in Dragon Age se decidiamo di intraprendere un viaggio piuttosto che un altro, tale scelta incide profondamente sugli avvenimenti futuri. Le varianti e i “bivi” che la trama può imboccare, di un numero pressochè incalcolabile, hanno un’unica, poetica conseguenza: in Dragon Age ogni avventura è unica, irripetibile e completamente diversa da quella degli altri.
L’ODORE DEL SANGUE
Come abbiamo avuto modo di accennarvi in precedenza, Dragon Age offre una narrazione tanto vasta e convincente da aver permesso per la prima volta, nella pluripremiata storia videoludica dei ragazzi di BioWare, di realizzare ben sei preludi unici (uno per ogni eroe principale) attraverso i quali poter assistere alle “Origini” delle fazioni più importanti.
Mutuata direttamente dal sistema di combattimento di Baldur’s Gate, la giocabilità del nuovo capolavoro della casa di sviluppo canadese amplifica a dismisura quanto propostoci da loro stessi nell’ormai lontano 1998: pur essendone il “seguito spirituale”, Dragon Age riesce a prenderne debitamente le distanze per offrirci un qualcosa di atipico e addirittura inedito nello sconfinato panorama dei GDR occidentali.
Aiutati dal tutorial della fase iniziale, muoviamo i nostri primi passi nel Ferelden con la consapevolezza di chi sa che ha davvero tanto da imparare, quindi cerchiamo di essere sintetici per non rovinarvi troppo la sorpresa: oltre agli ormai classici stili di combattimento ravvicinato e da lunga distanza (sia fisico che magico), il nostro prode eroe può contare su tutta una serie di peculiarità uniche.
Differentemente dalla trama, in cui potremo attuare le nostre scelte in piena libertà, Dragon Age fissa dei paletti insormontabili per quanto riguarda l’evoluzione del proprio alter ego. I guerrieri e coloro i quali fanno della forza muscolare la loro arma principale, infatti, salendo di livello potranno sbloccare esclusivamente dei Talenti, a differenza dei maghi che, a loro volta, saranno in grado di evocare degli Incantesimi.
Altra caratteristica essenziale del capolavoro BioWare è il gioco di squadra: nel prosieguo della storia saremo in grado di “reclutare” diversi personaggi che, a loro volta, possono essere utilizzati in team da quattro (eroe principale compreso). La scelta dei singoli componenti del party è di importanza capitale: oltre a rivestire un ruolo centrale nella narrazione (possono intervenire nelle discussioni), le loro peculiarità ci saranno di tremendo aiuto sia nelle fasi d’esplorazione spicciole (i compagni ladri possono violare le serrature a noi ignote) che nei combattimenti veri e propri (dando il compito ai maghi di curare i guerrieri, o viceversa).
Dato il tipo di prodotto, diventa persino inutile aggiungere che è possibile creare pozioni, armi incantate e trappole da erbe selvatiche, rune magiche e veleni vari: da questo particolarissimo punto di vista, Dragon Age non offre nulla di nuovo e si limita a rendere felici gli appassionati del genere regalandogli una caratteristica divenuta ormai sacra per i giochi di ruolo.
PC E CONSOLE HD: LE DIFFERENZE
L’intera impalcatura di gioco di Dragon Age: Origins tradisce uno sviluppo orientato inizialmente solo verso il mondo PC. Nonostante questo, comunque, l’esperienza decennale di quei mattacchioni di BioWare (e le ingenti risorse finanziarie di Electronic Arts, aggiungiamo noi) hanno contribuito a rendere la duplice versione per PlayStation 3 e Xbox 360 estremamente godibile, malgardo alcune fastidiose incongruenze.
Su console ad alta definizione, ad esempio, la gestione dell’inventario e il menù toroidale con cui attuare le tattiche di squadra (alla Mass Effect, per intenderci) hanno una mappatura sui tasti del joypad difficilmente assimilabile, a differenza della versione PC che naturalmente, avendo a disposizione un “controller” con decine e decine di pulsanti e un “puntatore” preciso al millimetro, adempie alla perfezione a tale scopo.
Analoghe incompatibilità possiamo ravvisarle anche nel sistema di combattimento “alla The Witcher”: se su PC non c’è assolutamente alcun problema nell’affrontare un nemico “indirettamente”, ossia cliccandoci semplicemente sopra e decidendo solo il tipo di attacco, su console tale “filosofia” diventa difficilmente digeribile, specie quando si decide di affrontare la campagna con un guerriero o comunque con un personaggio che colpisce i suoi nemici dalla corta distanza.
Le differenze tra la versione PC e quella per console HD di Dragon Age: Origins arrivano a comprendere anche la gestione diretta della telecamera ed alcune piccole “chicche” accessorie. Mentre su PlayStation 3 e Xbox 360 la telecamera non può essere spostata di mezzo millimetro ed inquadra l’eroe da dietro le spalle in una visuale in terza persona, su PC è possibile “scalare” gradatamente la telecamera verso l’alto fino ad un limite massimo “alla Baldur’s Gate” che ingloba il mondo di gioco circostante all’eroe.
Tra le peculiarità uniche della versione PC troviamo inoltre il simpatico “album dei ricordi” che cattura automaticamente i momenti salienti dell’avventura del proprio personaggio in un’apposita cartella di immagini, a riprova dell’enorme (e minuzioso) sforzo profuso da BioWare nel donarci un titolo difficilmente dimenticabile.
Per quanto riguarda le prestazioni su PC, nella nostra configurazione di prova (E6400@3.0ghz, 4GB RAM, Ati 4850) il gioco si comporta bene con tutto attivo e AA2x alla risoluzione di 1920×1200, rimanendo quasi sempre sopra i 40fps.
GRAFICA E SONORO
L’aspetto meramente tecnico di Dragon Age: Origins rappresenta il tallone d’Achille dell’esperienza videoludica offertaci da BioWare. Il motore grafico Eclipse, creato per l’occasione, adempie solo in parte alle richieste di una clientela che, esigente o meno, non può che storcere il naso di fronte a texture ambientali a bassa risoluzione, a modelli poligonali insufficienti, ad effetti particellari dozzinali e ad una fluidità di gioco insolitamente bassa su console ad alta definizione, nonostante l’ottima scalabilità della versione PC.
A dispetto dei dialoghi, profondi e splendidamente congeniati per darci l’impressione di essere davvero lì a scambiare due chiacchiere col personaggio non giocante di turno, l’interazione con l’ambiente di gioco è ridotta all’essenziale perchè, oltre a non dare assolutamente la possibilità di raccogliere suppellettili e oggetti superflui (anche qui, Oblivion la fà da padrone), offre scenari preconfigurati in cui nulla è direttamente tangibile. Conseguentemente a questo, gli sconfinati territori del Ferelden non trasmettono quella gioia che ogni buon “turista videoludico” prova nel visitare gli angoli più remoti del loro gioco di ruolo preferito.
Le stesse criticità di cui soffre la componente grafica di Dragon Age:Origins, purtroppo finiamo col ritrovarle inesorabilmente anche nell’aspetto sonoro. Ciò che manca alla produzione di Mukyka e compagni non è solo una colonna sonora epica ed avvolgente (aspetto peculiare di Gothic 3 e The Witcher), ma anche e soprattutto un doppiaggio emotivamente pragmatico. Le voci dei personaggi incontrabili, ad eccezione di quelle (davvero ottime) dei demoni e della Prole Oscura, non sembrano particolarmente ispirate. Come è naturale che sia per un titolo contenente migliaia di righe di dialogo, infine, alla completa traduzione dei testi, dei menù di gioco e dei dialoghi di Dragon Age: Origins fa da contraltare la totale assenza del parlato in italiano.
COMMENTO FINALE
Come ogni vero capolavoro, Dragon Age: Origins offre un’esperienza che va ben oltre i confini videoludici. I reami distrutti ciclicamente dal flagello della Prole Oscura, i loro abitanti e le storie che legano l’un l’altro in questa sorta di universo parallelo, permettono al giocatore di turno di plasmare con le sue mani un’avventura unica e indimenticabile.
La coraggiosa direzione in cui i ragazzi di BioWare si sono mossi nel dare al tutto un’aspetto pulsante e credibile, nonostante qualche piccola sbavatura, è la più nobile delle dimostrazioni d’amore che un appassionato di giochi di ruolo potrebbe mai dare verso il suo genere prediletto.
Dragon Age: Origins è una candida tela, affacciata su uno splendido paesaggio fantasy, che la casa di sviluppo canadese ci chiede di dipingere lentamente, con la passione e la poesia di chi ha voglia (e soprattutto tempo) di trasferire le proprie emozioni su di un capolavoro eterno che, in ultima analisi, non può assolutamente mancare nella ludoteca degli amanti del genere ma anche di tutti coloro interessati alla trama e alle diverse anime che è in grado di assumere al nostro sacro volere.
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