Metal Gear Solid V: The Phantom Pain - la recensione

Blogo recensisce per voi l'ultimo atto della storica saga action-stealth di Hideo Kojima
Blogo recensisce per voi l'ultimo atto della storica saga action-stealth di Hideo Kojima

[blogo-video id=”403566″ title=”Metal Gear Solid V: The Phantom Pain | trailer di lancio” content=”” provider=”youtube” image_url=”https://media.gamesblog.it/d/d4e/maxresdefault-jpg.png” thumb_maxres=”1″ url=”https://www.youtube.com/watch?v=A9JV0EvCkMI” embed=”PGRpdiBpZD0nbXAtdmlkZW9fY29udGVudF9fNDAzNTY2JyBjbGFzcz0nbXAtdmlkZW9fY29udGVudCc+PGlmcmFtZSB3aWR0aD0iNTAwIiBoZWlnaHQ9IjI4MSIgc3JjPSJodHRwczovL3d3dy55b3V0dWJlLmNvbS9lbWJlZC9BOUpWMEV2Q2tNST9mZWF0dXJlPW9lbWJlZCIgZnJhbWVib3JkZXI9IjAiIGFsbG93ZnVsbHNjcmVlbj48L2lmcmFtZT48c3R5bGU+I21wLXZpZGVvX2NvbnRlbnRfXzQwMzU2Nntwb3NpdGlvbjogcmVsYXRpdmU7cGFkZGluZy1ib3R0b206IDU2LjI1JTtoZWlnaHQ6IDAgIWltcG9ydGFudDtvdmVyZmxvdzogaGlkZGVuO3dpZHRoOiAxMDAlICFpbXBvcnRhbnQ7fSAjbXAtdmlkZW9fY29udGVudF9fNDAzNTY2IC5icmlkLCAjbXAtdmlkZW9fY29udGVudF9fNDAzNTY2IGlmcmFtZSB7cG9zaXRpb246IGFic29sdXRlICFpbXBvcnRhbnQ7dG9wOiAwICFpbXBvcnRhbnQ7IGxlZnQ6IDAgIWltcG9ydGFudDt3aWR0aDogMTAwJSAhaW1wb3J0YW50O2hlaWdodDogMTAwJSAhaW1wb3J0YW50O308L3N0eWxlPjwvZGl2Pg==”]

Per il grande filosofo greco Aristotele, il piacere nel lavoro aggiunge perfezione al compito che decidiamo di svolgere; per una persona come Hideo Kojima (con un ego e una considerazione di sé di certo non inferiore a quella del discepolo di Platone), invece, è il lavoro ad essere subordinato alla ricerca della perfezione e del piacere, sia per se stessi che, soprattutto, per coloro che decidono di godere dei frutti del suo lavoro.

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Il monumentale progetto di Metal Gear Solid V: The Phantom Pain nasce da queste premesse. Gli anni spesi dalla ormai ex sussidiaria di Konami per assecondare i desideri e il geniale estro creativo di Kojima hanno prodotto un mostro di originalità e di audacia impossibile da incasellare e da giudicare in maniera esaustiva. L’interpretazione più vicina alla realtà che possiamo offrirvi analizzando l’ultimo kolossal di Kojima è quella di un titolo di rottura, uno specchio che riflette la caleidoscopica e visionaria personalità del suo ideatore con un meraviglioso esercizio di stile ricco di citazioni e di situazioni intraducibili.

Con questa consapevolezza, nelle 80 e passa ore di gioco che abbiamo passato nella violenta dimensione di Metal Gear Solid V: The Phantom Pain (versione PS4) abbiamo assecondato il desiderio del boss dei Kojima Productions stringendo alleanze con personaggi dalla dubbia moralità, tirando le fila del nostro esercito e combattendo contro i demoni che popolano le notti insonni di Venom Snake, il tutto per proporvi una visione più chiara sui principali elementi grafici, artistici, tecnici e ludici che contraddistinguono l’ultimo atto dell’epopea action-stealth di Kojima.

COSA CI PIACE

Gameplay profondo e originale

Il sistema di gioco di Metal Gear Solid V: The Phantom Pain viaggia sul triplice binario delle missioni sul campo, delle dinamiche gestionali legate all’ampliamento della Mother Base e dell’acquisizione delle informazioni necessarie per progredire nella storia principale e nella comprensione dei diversi personaggi secondari che gravitano attorno alla figura di Big Boss.

Grazie anche al lavoro compiuto dai Kojima Productions con il prologo Ground Zeroes, l’impianto action-stealth di The Phantom Pain risulta essere senza alcun dubbio l’elemento meglio riuscito dell’intera opera, almeno per ciò che concerne l’esperienza di gioco spicciola (le analisi sul comparto artistico e sulla grafica le trovate nell’apposito paragrafo di questa recensione). Nei panni di Venon Snake, gli appassionati del genere possono sbarazzarsi degli avversari di turno servendosi di decine di armi e di elementi di equipaggiamento o, in alternativa, possono raggiungere silenziosamente il proprio obiettivo scivolando dietro le linee nemiche attraverso la conoscenza del territorio e l’aiuto offerto dai propri compagni di squadra, siano essi rappresentati dai mercenari dei Diamond Dogs, dal fedele D.D. o dalla letale Quiet.

L’impianto action-stealth di The Phantom Pain scandisce il ritmo di gioco con la precisione di un orologio atomico: l’intelligenza artificiale dei nemici, ad esempio, reagice dinamicamente al nostro stile di gameplay e si adegua al contesto prendendo tutte le contromisure del caso (aggiungendo degli elmenti pesanti per limitare le vittime dei cecchini o rinforzando le difese perimetrali per fronteggiare i patiti delle infiltrazioni silenziose). La straordinaria libertà concessa all’utente nella scelta delle azioni da compiere, inoltre, dona unicità al tutto e ci consente di estendere a dismisura il ventaglio di opzioni per lo svolgimento delle missioni. Da questo punto di vista, quindi, Metal Gear Solid V: The Phantom Pain mantiene le promesse fatte in questi mesi dal team di Hideo Kojima e dimostra di essere il migliore videogioco stealth attualmente in circolazione.

Meccaniche open-world perfette

Nella sconfinata e complessa dimensione sandbox di The Phantom Pain, le informazioni valgono più dell’oro e delle pallottole: per dominare il campo di battaglia, di conseguenza, non si può fare affidamento solo sulle capacità omicidiarie e di infiltrazione silenziosa di Big Boss ma ci si deve avvalere di strumenti come l’iDroid e il Fulton. Supportati dal computer portatile necessario per acquisire i dati della Mother Base sugli obiettivi sensibili presenti sulla mappa e dal sistema di recupero basato su palloni aerostatici auto-gonfianti utilizzabili per inviare alla base i materiali, i nemici, i veicoli e tutto ciò che può essere recuperato nel corso delle missioni, gli utenti possono approcciarsi a ciascuna sfida scegliendo liberamente quali azioni intraprendere, quando intervenire e come comportarsi una volta entrati nelle installazioni avversarie.

Il titolo, inoltre, riprende gli elementi gestionali di Peace Walker per permetterci di “costruire” pezzo per pezzo la nostra Mother Base utilizzando un numero incalcolabile di elementi con cui aggiungere funzionalità ai singoli reparti e compartimenti della casa galleggiante dei Diamond Dogs (i soldati reclutati da Venom Snake).

Ciò che rende davvero irresistibili le meccaniche free roaming dell’ultima creatura dei Kojima Productions è però il modo in cui queste ultime si intrecciano indissolubilmente all’avventura di Big Boss, arricchendola di contenuti al punto tale da rendere praticamente indistinguibili le missioni della linea narrativa principale dalle operazioni “accessorie” da attuare per potenziare la Mother Base, acquisire elementi di equipaggiamento rari, ottenere l’aiuto di esperti e allentare la morsa sul territorio degli eserciti nemici (ad esempio tagliando le comunicazioni tra gli avamposti o effettuando sabotaggi e hacking vari).

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Comparto grafico e artistico sontuoso

Bastano davvero poche ore di gioco per accorgersi dell’assoluto valore artistico e grafico di Metal Gear Solid V: The Phantom Pain. Servendosi dell’ultima versione del Fox Engine, i Kojima Productions hanno sudato le proverbiali sette camicie per dare al titolo un taglio cinematografico: dalle adrenaliniche scene di intermezzo della prima parte dell’avventura alle funamboliche azioni compiute da Venom Snake nelle missioni dei frangenti a mondo aperto, ogni singolo pixel che vediamo scorrere a schermo reca impressa la firma del geniale ideatore della saga di Metal Gear.

Anche per questo, le leggere sbavature riscontrabili tra le pieghe del comparto tecnico per via della natura squisitamente multipiattaforma del progetto, con lievi ritardi nel caricamento delle texture e ambientazioni interne un po’ spoglie e “arredate” da modelli poligonali poco realistici, non minano l’esperienza visiva nel suo insieme ma, anzi, ci permettono di apprezzare ulteriormente la coraggiosa scelta compiuta dai programmatori dei Kojima Productions di dare priorità agli infiniti elementi grafici che, sotto l’attenta supervisione del boss degli studios nipponici appena sganciatisi dall’orbita di Konami, regalano momenti di pura gioia a tutti i cultori della saga con citazioni a profusione e spunti di riflessione che valgono più di qualsiasi trailer in cinematica.

In quest’ottica, rientra poi l’incredibile raccolta di brani di musica classica, di tracce originali della colonna sonora e di canzoni della miglior tradizione rock degli anni ’70 e ’80 che riflette appieno i gusti di papà Hideo e, conseguentemente, dei suoi eroi digitali.

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COSA NON CI PIACE

Storia diluita e a tratti confusionaria

Alla fine del ‘700, gli studiosi che sbarcarono in Egitto al seguito delle truppe napoleoniche non riuscirono a decodificare la complessa scrittura geroglifica fino alla scoperta della Stele di Rosetta: la frustrazione provata da quegli antichi archeologi deve essere simile a quella sperimentata da chi, in queste lunghe giornate passate ad arredare la Mother Base e a collezionare cassette audio e foto ricordo di Paz, sta cercando disperatamente di capire dove collocare le infinite tessere del puzzle della trama di The Phantom Pain.

A prescindere dal livello di esperienza e dalle conoscenze maturate giocando i capitoli precedenti dell’epopea stealth di Hideo Kojima, la storia di Metal Gear Solid V somiglia infatti ad una gigantesca mappa concettuale interattiva, completamente sprovvista di punti di riferimento e talmente criptica da risultare indigesta.

Non avendo potuto servirsi degli interminabili filmati in cinematica (croce e delizia dei Meal Gear passati), gli autori dei Kojima Productions hanno finito con il diluire la storia principale in un mare di missioni frammentarie in una pletora di operazioni secondarie volte all’acquisizione di dati sensibili e in una serie, altrettanto confusionaria, di attività correlate all’esplorazione libera della Mother Base e all’interazione con i suoi “abitanti”, dai PNG maggiori al più umile dei traduttori.

In The Phantom Pain, inoltre, le tematiche più impegnate che rappresentano da sempre il fulcro del canovaccio narrativo della serie di Metal Gear rimangono sottotraccia per gran parte dell’avventura e non riescono ad essere predominanti sugli altri aspetti delle dinamiche free roaming, eccezion fatta per il prologo e l’epilogo, ossia gli unici frangenti davvero incisivi della storia.

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La ripetitività delle missioni avanzate

Come in ogni videogioco a mondo aperto che si rispetti, anche in MGS V arriva un momento, nella progressione delle missioni della campagna, in cui il treno con le attività della storia e del modulo sandbox ritorna inesorabilmente alla stazione di partenza riproponendo le medesime situazioni già sperimentate nelle ore di gioco precedenti: in The Phantom Pain, questo momento coincide in maniera a dir poco “sfacciata” con il Capitolo 2.

Alla fine della finestra narrativa ambientata in Afghanistan, infatti, molte delle operazioni da condurre in free roaming e persino alcune delle missioni della linea narrativa principale “allungano il brodo” della storia con modificatori che ci costringono a ripetere le sfide già affrontate, solo ad un livello di difficoltà più elevato e con diversi “malus” attivati in automatico (dal game over immediato appena scoperti dal nemico col modificatore “Total Stealth” all’aumento spropositato della resistenza dei nemici e del danno inflitto a Venom Snake con “Extreme”). La necessità di concludere tutte queste missioni (e diversi altri compiti “misteriosi) per poter sbloccare il finale segreto, di certo non contribuisce ad addolcire la situazione, specie per coloro che hanno amato la linearità narrativa dei precedenti Metal Gear.

Anche le care, vecchie sfide con i boss e i nemici maggiori, in The Phantom Pain, finiscono con l’andare in sofferenza a causa dell’imprescindibile progressione open-world dell’avventura, anche se, a onor del vero, il livello qualitativo di questi scontri rimane ben sopra la media delle boss fights proposte dagli sparatutto concorrenti.

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CONSIDERAZIONI FINALI

Ambizioso, profondo, imprevedibile e a tratti persino schizofrenico, Metal Gear Solid V: The Phantom Pain riflette il genio folle di Hideo Kojima e la volontà dei suoi Kojima Productions di congedarsi dal proprio pubblico regalando loro un’esperienza di gioco, nel bene o nel male, semplicemente indimenticabile.

Pur riuscendo a tenere incollati allo schermo sia i neofiti che gli “esperti” della saga per tutta la durata dell’avventura grazie a un impianto free roaming solido come la roccia e ad un gameplay dalle mille sfaccettature, l’opera ultima di Kojima mostra il fianco a più di una critica e trasmette emozioni contrastanti, alternando attimi di pura estasi a momenti talmente incomprensibili e surreali da dare alla testa.

A dispetto di un canovaccio narrativo troppo frammentato e arricciato in un autoreferenzialismo che rende la storia ancor più criptica e confusionaria, comunque, gli sforzi profusi dalla ormai ex sussidiaria di Konami per rivoluzionare le meccaniche di gioco dei capitoli precedenti in funzione della progressione open-world delle missioni di Metal Gear Solid V: The Phantom Pain danno al titolo un respiro incredibilmente ampio e lo proiettano nell’Olimpo degli action-stealth. Un capolavoro atipico, un kolossal destinato a rimanere nella storia dei videogiochi ma incapace di rispondere in maniera risolutiva e soddisfacente agli infiniti quesiti posti da questo e dagli episodi passati dell’epopea di Metal Gear.

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